Stefano Bollani
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Da promessa di indubbio talento, Stefano Bollani è diventato
in pochi anni uno dei jazzisti italiani di maggior spessore. Se ne
sono accorti anche in Giappone, dove la più autorevole pubblicazione
jazz di quel Paese, Swing Journal, gli ha conferito il New
Star Award, per la prima volta attribuito a un musicista europeo. In
Francia è stato pubblicato nel 2002 dalla prestigiosa Label
Bleu, e salutato con grande favore, Les Fleurs Bleues, un
omaggio all'opera dello scrittore Raymond Quenau condivisa con gli
americani Scott Colley e Clarence Penn. In Italia, invece, è di
fresca consegna il napoletano Premio Carosone, solitamente destinato
a cantanti.
Rapide sono le tappe dell'ascesa del pianista milanese, ma toscano di adozione,
dall'affermazione appena ventenne al concorso di Prato alla direzione dell'Orchestra
del Titanic e all'importante militanza, tuttora attiva, negli organici del suo
mentore Enrico Rava. Lo ascoltò per la prima volta a Firenze quando aveva
tredici anni, ritrovandosi a suonare con lui dieci anni dopo, nel 1995: "Da
allora mi ha coinvolto al pianoforte nei progetti più disparati, non facendomi
mai pesare la differenza di età e di esperienza".
Nel maggio del 2003 Stefano è tornato a incidere, stavolta da solo, in
un studio di Montevarchi ricavato da una vecchia fabbrica di sementi dove si
registra musica rinascimentale e barocca, un nuovo lavoro per la Label Bleu.
Il compact, come lo spettacolo che presenterà a Torino, è intitolato Småt
Småt, che in danese significa "piccolo piccolo". "Ho
scelto il titolo perché mi piaceva il suono della parola. E poi perché ho
registrato l'album da solo e tutti i pezzi sono di breve durata, delle specie
di miniature: è dunque un disco piccolo piccolo".
Ma non ci si deve attendere nulla di riduttivo da queste premesse. Småt
Småt, sia pure in sedicesimo, si configura come un vero e proprio
autoritratto, in cui l'artista recepisce e personalizza gli influssi di "altre
musiche", dalla classica al rock al pop. |
Contiene brani di Zappa e dei Beatles, di Monk e di
autori argentini e brasiliani (tra cui il dimenticato Adoniran Barbosa
di "Trem das onze", tradotto da Riccardo del Turco come "Figlio
Unico") e persino il tema di Prokofiev da "Pierino e il Lupo".
È il gusto a guidare le sue scelte, e l'imprevedibilità fa parte
del suo modus operandi: "Sono il primo a non volermi annoiare ai
miei concerti o quando ascolto i miei dischi. Nel jazz, il rischio della noia,
della ripetitività, è assai reale. Ecco perché si finisce
a cercare stimoli e ispirazioni in musiche vicine". Si tratta di vicinanze
a cui Stefano non è refrattario: sono note le collaborazioni con Jovanotti
e Irene Grandi, e un paio di suoi interventi vocali (è un esilarante emulo
di Johnny Dorelli) hanno fatto la comparsa in un album di Elio e le Storie Tese. "Non
sono interessato ad avere un pubblico formato solo da jazzofili, che mi fanno
le pulci e mi spiegano a quale pianista faccio riferimento, o a quale disco mi
ispiro. Preferisco uno che mi dica: mi è piaciuto, ho pianto, ho riso,
gente che la pensa come me. È per questo pubblico che mi piace suonare". |
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