"Impegnarsi in un set
solistico completamente acustico è sempre un rischio per noialtri
chitarristi elettrici", avverte Marc Ribot nel commentare l'ultima
impresa del formidabile collega Elliott Sharp. Il 53enne musicista
di Cleveland è ormai da un quarto di secolo uno dei più
impegnati abitanti della scena sonora della Downtown New York.
Spesso calcolatore, analitico, scientifico, Sharp non ha mai tradito
la propria visione di sperimentatore totale - conscio del potere della
libera espressione (ben aldilà del cliché dell'ambiente
"free") scatena un'alluvione fulminante di suoni dalla chitarra
e dal sax - oltre che compositore e produttore è un multistrumentista
compiuto. È un eclettico senza pari: nell'esplorare la sua
discografia sterminata, l'ascoltatore non può essere sicuro
a priori di ciò che incontrerà, e neppure, per la verità,
del genere di musica affrontato.
I suoi fans appartengono a parecchi mondi. Un jazzofilo da lui si
attende musica improvvisata che richiede un ascolto approfondito,
l'appassionato di elaborazioni computerizzate troverà (soprattutto
nelle varie edizioni del gruppo Carbon) nuovi territori di turbolenza
elettronica, il nostalgico del rock progressivo dei '70 scopre che
cosa poteva celarsi sotto la superficie che i King Crimsom avevano
appena scalfito. |
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E chi si interessa di blues si accorge che l'artista
altrimenti noto come E# si è confrontato con capisaldi come
Hubert Sumlòin e Son House, rivelando, con il suo agglomerato
Terraplane, legami sotterranei con l'automobile metaforica guidata
da Robert Johnson. |
Elliott Sharp |
Per svariate che siano le sue proposte,
Sharp conferisce a tutte la propria impronta. A questo paradigma pluridimensionale
non sfugge The Velocity Of Hue, che con l'uso del solo strumento
acustico e senza l'ombra di post-produzioni investiga risonanze di
natura nobilmente astratta. Le composizioni non costituiscono dei
punti di partenza. Piuttosto, le idee melodiche vengono affrontate
e risolte nell'esecuzione, che si trova a confronto con le tecniche
da adoperare, con i moods da approfondire, con i sentieri
da intraprendere. L'assenza strategica obbliga il musicista a inventare,
o piuttosto a trovare, la struttura melodica sul momento.
Non stupisce che uno dei chitarristi più incendiari trovi,
nell'essenza stessa del suono naturale dello strumento e nelle tentazioni
di vari universi paralleli - flamenco, musica classica occidentale,
brasiliana, folk - un senso della sottigliezza e delle sfumature sovente
sacrificato in formazioni più ampie e fragorose. Qui Elliot
non si limita ad affiancare, né a fondere, generi ed espressività
tra loro aliene. "La velocità del grido" non è
un'operazione di fusion, quanto la scoperta di un luogo sonico
di origine comune. Come un joint sperduto nel Delta, dove
un allucinato postmoderno trova la cosa più naturale del mondo
immergersi in una jam con Blind Willie Johnson o con i cantatori di
gola dell'Asia centrale. Un punto d'incontro, o cella di collisione,
di tutte le tradizioni a confronto con i limiti e le proprietà
di un unico strumento. "Sono tutte idee forti", conclude
Ribot. "Elliott dà loro voce con tecnica e sensibilità
sorprendenti". |
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